Giovanni Colacicchi: “Pitture e disegni di Emanuele Cavalli”, 1947

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Giovanni Colacicchi, Pitture e disegni di Emanuele Cavalli, Firenze 1947 (presentazione alla personale presso la Galleria Michelangelo, Firenze)

Il pittore Emanuele Cavalli lo abbiamo conosciuto di persona circa venti anni fa in piazza San Marco a Firenze. Era un pomeriggio di primavera, e lui appariva giovanissimo nella divisa grigio verde; piuttosto esile, di statura non alta, un ragazzo, da cui emanava un vivo senso di freschezza; di amore per le cose d’intorno, quasi di fiducia per la presenza e l’aspetto delle cose; per le quali, soprattutto, si notava in lui una ‘protesa attenzione’.

Lo ritrovammo dopo un paio d’anni, che s’era fissato a Firenze e lavorava in uno studio alla costa San Giorgio. Faceva allora una pittura chiara, sensibile e sensuale; con allusioni a Tiziano, a Rubens, a Veronese, a Spadini; vagamente impressionistica; in cui, anche se ‘non troppo controllato’, potevi vedere il frutto di un ricco temperamento; una gioiosa irruenza; e comunque, anche se immaturo, un pittore.

Ma le sue più proprie qualità erano ancora nascoste. La sua più intima essenza, i suoi spirituali desideri, i suoi gusti, le sue più segrete aspirazioni, si son fatte a mano a mano più chiari e più precisi durante gli anni necessariamente agitati, faticosi e, in un certo senso, oscuri, ma laboriosissimi, a cui è andato incontro, ma non disarmato, il giovinetto di allora; che possiamo poi seguire inquieto a Roma, a Parigi, nella nativa Lucera; e di nuovo a Roma dal 1930 al 1935; epoca in cui compie le più ardite esperienze, le sue più superbe rinunzie, e macera e scarnisce e castiga la sua sensibilissima natura. Dal 1935 per più di dieci anni si ritira ad Anticoli Corrado. In quella rocciosa solitudine egli ha trovato decisamente se stesso; ha composto alcune delle sue opere più significative e più sicure. E ha, in un certo senso, chiuso un ciclo della sua vita. Un altro ne ha aperto a Firenze, fra noi, dove da più di un anno lavora.

È raro poter osservare una vita di artista che si svolga con un tale progressivo e coerente aumentarsi delle possibilità d’espressione. Man mano che cresce in lui il potere di rendere, di realizzare il suo mondo, di altrettanto aumenta lo spirituale spazio in cui il suo spirito si muove; e le sue spirituali prospettive, cioè i suoi mezzi di indagine e di scoperta, tanto più gli rivelano di se stesso e del mondo quanto più egli riuscirà poi di sè e del mondo sicuramente a stringere e possedere. Così che le sue opere appaiono, da un momento che si può porre nell’ultimo giro dei suoi anni romani, in un certo senso sempre compiute, perché la sua alacre volontà non cessava di esercitarsi su di esse finché non avessero risposto pienamente a quelle proposte che lo stato di espansione della sua personalità gli aveva permesso, anzi imposto di avanzare. Questa possibilità di compiutezza e nello stesso tempo di aumento progressivo del valore di ciascuna opera è il portato (raro) di tre doti fondamentali che solo i veri artisti posseggono unite: coscienza, sincerità e solerzia, le quali sono possedute insieme (ma è dubbio che mai possano esistere separate) diventano realmente attive e produttive.

Non è qui il caso di parlare diffusamente di quel che sono state le esperienze romane di Cavalli soprattutto in rapporto agli altri membri di un gruppo di cui egli fece parte col pittore Capogrossi e il pittore Cagli, gruppo che diede origine a tutto un clima pittorico, alla cosidetta scuola romana, da cui nacquero alcune delle più significative opere dell’arte italiana contemporanea. Ma non è forse inutile accennare sia pure di sfuggita a ciò che allora si chiamò “tonalismo”: il principio che era alla base di quella pittura, e la cui enunciazione teorica, anche se imperfetta e confusa, ha avuto comunque una stimolante e attiva funzione. Questo “tonalismo” tendeva, per Cavalli, a una pittura nella quale l’immagine di un oggetto avrebbe dovuto sorgere non per forza di chiaroscuro o di ‘scritture’, cioè di segni, ma per sole virtù di colore. Al colore d’altra parte si attribuiva un potere emotivo e quasi magico in un certo qual modo indipendente. È una teoria probabilmente vecchia di secoli (giusta o ingiusta che sia), come vecchia di secoli è la pratica che da essa deriva (o non piuttosto da cui essa deriva?) di cui si possono osservare gli effetti in innumerevoli opere, dalla pittura pompeiana fino a quella dei macchiaiuoli e a quella dei Gaughin e di Van Gogh. Ma, d’altra parte, le teorie valgono per la vitalità nuova che in ogni artista, e anzi in ogni opera, acquistano. E poi perché rappresentano una parziale verità, con la quale altre parziali verità fanno un tutto sempre diverso e sempre vero, che corrisponde poi alla realtà vera e singolare dell’anima e dell’opera dell’artista. Sulla base di queste convinzioni, alle quali si univano altre argomentazioni riguardanti la composizione nei suoi più complessi aspetti lineari e volumetrici, il pittore Cavalli, mosso e sorretto dalla sua umana sensibilità e dal suo amore per le cose e per le persone che lo circondavano, ha compiuto le opere che più lo hanno fatto conoscere e ammirare in tutte le numerose esposizioni italiane e straniere a cui ha preso parte. Fra queste più sono da ricordarsi la Quadriennale romana del 1935, nella quale meritò un importante premio nazionale, la personale alla Biennale veneziana del 1938, e, già prima, quella alla galleria Bonjean di Parigi, nel dicembre del ‘933. Alla galleria d’Arte Moderna di Roma figurano di quel periodo alcune delle opere più importanti: lo Sposalizio, la Bagnante ecc.

Nel 1942 esponeva a Roma in una sua personale ordinata alla quarta Quadriennale una serie di opere in cui si poteva osservare un’altra e forse anche più significativa sua accezione di quel ” tonalismo” che man mano aveva preso in lui un aspetto sempre più nuovo, e gli si era infine imposto non più come ricerca di contrasti cromatici, ma piuttosto come desiderio di realizzazione della particolare tonalità o intonazione cromatica di ciascun quadro. I dipinti si chiamavano Figura in rosso, Figura in verde , Figura in giallo, in bianco, in celeste ecc. E se si fosse voluto e potuto porre l’accento sul verde o il rosso o il celeste del titolo ci saremmo trovati ancora una volta davanti a un imponente esempio di scissione degli elementi di un’arte, e di ingiusto predominio di uno di quegli elementi, in questo caso il colore, su tutti gli altri elementi. Ma l’accento, prima di noi, il pittore Cavalli, praticamente, nell’opera, l’aveva messo sulla parola Figura. Quei quadri infatti, anche se potevano valere per l’accordo risultante dalla particolare tonalità dl ciascuno di essi posta accanto alla tonalità del vicino, rossa, verde, bianca, celeste o gialla, in modo da formare quasi un fregio multicolore e costante, una volta disgiunti, pur avendo perduto quel tanto di eccitante e polemico che allora li rendeva particolarmente significativi, vivono ora una vita ben più intensa, valida e singolare. Perché già da molto tempo, e forse fin dall’inizio, ma specialmente durante il periodo della loro fattura, il pittore Cavalli si stava evolvendo verso la concezione di un’arte. patetica e drammatica, essenzialmente rappresentativa, in cui la figura umana, con tutti i suoi sensi e le sue possibilità di allusione, e la sua simbolica intensità, veniva data la più grande importanza e, quasi in riconoscimento della divina origine, una decisiva preminenza.

In questa mostra fiorentina noi abbiamo ora i migliori risultati da lui raggiunti fondandosi su questa concezione dell’arte; per la quale egli non ha rinunziato, né era menomamente necessario che rinunciasse, a nessuno di quei principii che lo avevano portato alle sue prime idee del colore e del tono. Una più precisa e più attuale idea del ‘tono’, che egli ha raggiunto e possiede in comune con alcuni dei più volenterosi artisti della sua generazione, è quella di considerarlo soprattutto in funzione rappresentativa, cioè come rivelatore dell’immagine. Colore articolato, valore più colore, dicono essi con stringati termini teorici.

Per tale ‘umanistica’ concezione della pittura un pittore vuol essere, finalmente, giudicato soprattutto per quel tanto di vivo e di spiritualmente importante che egli riesce a esprimere per mezzo delle sue figure. E dalle opere di Cavalli noi possiamo ormai riconoscere che in lui, che nell’opera sua, s’è incarnato e plasticamente si esprime uno dei più intensi, pensosi e solerti spiriti della nostra generazione.

Giovanni Colacicchi

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1 Commento. Nuovo commento

  • Michela Zasio
    23 Novembre 2020 20:57

    Molto importante la pubblicazione integrale del testo critico per la mostra di Firenze del 1947 a firma G Colacicchi Complimenti

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